Quantcast
Channel: L'Indipendenza Nuova » Storie & tradizioni
Viewing all articles
Browse latest Browse all 251

Morte in Threecolor, il suicidio nell’Ottocento italiano

$
0
0

di PAOLO L. BERNARDINI

Dopo esattamente due anni dal suo lancio, ho concluso, con la collega Anita Virga, dell’Università del Connecticut e della University of Witwatersrand (l’università di Johannesburg e la principale università del continente africano intero), un progetto dedicato allo studio del suicidio nell’Ottocento italiano, anzi, il lungo Ottocento, che parte dalla rivoluzione francese e termina con la pace di Versailles. Ne è venuto fuori un libro ricchissimo, con diversi contributi di storici, antropologi criminali, letterati e filosofi, alcuni in italiano, la maggior parte in inglese.

Perché studiare il suicidio nell’Ottocento italiano? Non solo perché, banalmente, non vi erano opere al riguardo (ma questo vale per tutta un’altra serie di soggetti e temi), ma soprattutto perché è evidente che la fine dell’Antico Regime, in Italia, ma non solo in Italia, in tutta Europa, porta una nuova cultura del suicidio, che è parte, naturalmente, di una nuova cultura della morte in generale, e quindi della vita in generale. Che è frutto, dunque, di una nuova visione del mondo, che non sempre dà effetti positivi, che non sempre, del tutto e per tutto, è positiva essa stessa, non ostante il fatto che così tanto sia condizionata da una filosofia, parziale erede di quella illuministica, ma solo molto più attenta al ruolo delle masse all’alba della società di massa stessa, che si chiama, per l’appunto, positivismo.

Prima, la cultura cattolica aveva per dir così imbrigliato il suicidio, condannandolo radicalmente in nome di Sant’Agostino (e del suo sistematizzatore Tommaso, ovviamente ben radicato nella tradizione aristotelica, che si pronuncia anche al riguardo); ora l’emancipazione dell’individuo porta ad una nuova visione dell’individuo stesso nel cosmo, ad una nuova hybris, un’arroganza del sé, poi duplicato o triplicato da Freud, sciaguratamente, in cui la propria vita diviene un bene facilmente sacrificabile, perfino ad un capriccio momentaneo, perfino all’infatuazione d’amore, e all’amore negato. Werther astutamente docet, Foscolo plagia.

E nasce, con il suicidio di Ortis, al crepuscolo esatto del secolo XVIII, la letteratura italiana contemporanea. Mentre Leopardi al suicidio, da autentico materialista, esempio del tardivo recepimento del più puro materialismo settecentesco, non può che guardare con simpatia. E forse metterlo in atto, non con gesto subitaneo, ma coll’ingordigia decadente, con l’abuso di gelati, ad esempio, che la somma delle sue malattie non potevano tollerare. Una fine veramente algida (…). La disperazione della famiglia Manzoni, come ci narra con un libro strappalacrime Natalia Ginzburg, vede il suicidio potenziale frenato dalla rigida morale cattolica, assai temprata dal giansenismo di casa, ma le premesse per un suicidio collettivo, in quella disperazione crescente, ci sarebbero state tutte. Il suicidio minaccia la vita di Carducci, colpisce gran parte della sua famiglia. E il più grande autore di best-seller dell’Ottocento italiano, Emilio Salgari, si suicida in maniera spettacolare il 25 aprile 1911. Vendeva come e più di Eco ai giorni nostri, ma a quanto pare gli editori non gli pagavano i diritti.

Non è, il nostro, un libro a tesi, non vi compare, a pena di svilimento dell’operazione, un thema probandum di questo genere: nasce l’Italia unita, e da essa si diparte una nuova cultura del disprezzo della vita, del superomismo, micidiale lettura di Nietzsche temperata assai poco, e neppur disinnescata nei suoi effetti letali, dalla salutare ma tardiva rima di Gozzano, che con “niece” fa rimar appunto “camicie”. Piuttosto, è un libro dove si cerca di dimostrare che la stessa cultura della “nazione”, che ha in parte contribuito alla creazione dell’Italia, ma soprattutto della Germania, dell’Ungheria, o della Polonia, fa parte di quell’ondata di rinnovamento prima romantico, poi positivistico, poi materialistico, in cui, in nome di vari “collettivi”, e della secolarizzazione del mondo, il soggetto non solo conta ormai poco, nel giuoco di società che darà il là alla sociologia scienza novella (con numerose opere sul suicidio fino al capolavoro di Durkheim del 1897), ma è un piccolo Prometeo che può liberamente giocare con la propria vita fino a privarsene.

Se lo scetticismo cauto di Hume nel Settecento poteva affermare, riguardo alla condanna divina del suicidio, “a Dio della vita di un uomo singolo potrebbe importare come di quella di un’ostrica nell’universo”, trasformando Dio in un grossista di frutti di mare, Nietzsche, Schopenhauer, Feuerbach, Marx, Eduard von Hartmann, e compagnia, dicono che Dio è morto o lo trasformano in una generica “volontà di vita”, che è meglio in tutti i modi (suicidio compreso, ma non suggerito) negare. Interessante notare che le opere di von Hartmann, che convincevano la gioventù tedesca ad uccidersi con sottili argomenti nichilistici, ad un certo punto vennero proibite in Prussia, così come venne censurato il Werther un secolo prima.

Dunque, una nuova cultura della morte, del “sangue della nazione”, e della “nazione temprata nel sangue”, studiata bene da A. M. Banti in anni recenti, comprende in sé anche il nuovo culto del suicidio, il suo divenire di moda, il suo colpire indistintamente uomini e donne, ricchi e poveri, scapigliati e borghesi, garibaldini e mazziniani, “briganti” e soldati, e scrittori del calibro di Salgari, e pittori del calibro di Pellizza da Volpedo. Il suo “Quarto Stato” vede in marcia un vero e proprio esercito di zombie, degni dell’ultimo film con Brad Pitt, WWZ, che tutti aspettiamo con ansia, vero culmine di un genere, e gioia per un liberale classico, che vede rappresentata veramente nella sua più pura natura la massa mondiale di adepti al culto dello Stato. Eccoli lì. A questo il vostro Stato vi ha ridotti. Meno male che l’eroe libertario di turno vi mette al vostro posto, ma è un vero e proprio Maramaldo, uccide i morti. E come si fa?

Dunque, la nascita delle masse – letteralmente, colla tardiva ma forte rivoluzione demografica italiana per tutto l’Ottocento – la secolarizzazione, la cultura romantica e nazionale, l’individualismo spinto al sconvolgimento del tratto cristiano e comunitario presente nel concetto di “persona” (Prometeo è individuo “unbound” come Django, non persona nel senso cristiano: si legga l’opera di Shelley, e molto si capirà dell’Ottocento, e anche perché Prometeo fu così caro a Marx), poi il decadentismo, la cultura urbana (ci si suicida soprattutto in città, luogo, come aveva ben capito Rousseau, di perdizione…), l’amor di patria (il senatore ebreo Leopoldo Franchetti si suicida per l’onta di Caporetto, alla fine del 1917, e non è il solo), la “desesperatio” istituzionalizzata e priva del conforto religioso, il peggiore dei vizi insieme all’orgoglio, suo parente stretto, tutto ciò porta ad un trionfo del suicidio nell’Ottocento italiano, da Foscolo alla fine della prima guerra mondiale.

Intrisa di morte è anche la letteratura d’appendice, la lirica, la tragedia. Sul finire del secolo le tentazioni suicidarie si mescolano all’angoscia per la tisi, mala della letteratura, e dei letterati. Si leggano, se si ha la pazienza di farlo, le Ultime lettere di Giulio Pippi di Gustavo Chiesi, del 1894. La TBC è una rivoltella a buon prezzo, e per i pigri. Per tutto il secolo XIX si susseguono ristampe dell’Ortis – purtroppo nel volume da noi curato non vi è un saggio sulla tradizione ottocentesca di Foscolo – e sue imitazioni. Nasce il culto fatale, e il genere fatale, delle “ultime lettere”, che prosegue fino alla ultime lettere dei partigiani condannati a morte del fascismo che tanta fortuna ebbero fino a poco tempo fa in Italia. Non l’arte imita la vita, ma la vita l’arte. Il passaggio tra i due secoli è caratterizzato da quella “intossicazione letteraria” di cui mirabilmente parlò, a proposito del giovane Ala, assassino per imitazione letteraria, Edoardo Sanguineti, nella sua opera su Guido Gozzano (Guido Gozzano. Indagini e letture, Einaudi, 1966).

La vita perde il suo significato, la persona il proprio, nell’Ottocento europeo. In preda alle pulsioni dell’io scatenato, gli scrittori creano Frankenstein, Dracula, la nevrastenia e la psicanalisi. Private dell’identità personale, del principium individuationis, troppe anime fanno con leggerezza il gran salto, si tendono troppe funi, si alzano troppi cani, partono troppi proiettili. Di alcune di queste storie narra il nostro libro. Ma tante, tantissime altre sarebbero ancora da raccontare nei dettagli, il capitano Cappellini che (forse) si inabissa volontariamente con la sua nave e la sua ciurma dopo la sconfitta di Lissa, la marchesa Pallavicino che si spara alla nuca in Duomo, a Milano, nel 1905, afflitta dai debiti, forse da un amore infelice… Ma tutto questo, ci auguriamo, sarà fatto da altri studiosi, cui noi speriamo di aver umilmente aperto la strada.


Viewing all articles
Browse latest Browse all 251

Latest Images

Trending Articles